Folle
Le parole e le cose
fòl-le
Significato Privo di senno; che agisce in modo sconsiderato, irrazionale; ossessionato; estremamente grande o intenso; che gira a vuoto
Etimologia dal latino follis ‘sacco di cuoio, pallone’, da cui figuratamente ‘testa vuota’ e quindi ‘stolto’.
- «È l'azione di un folle.»
Parola pubblicata il 01 Agosto 2023
Le parole e le cose - con Salvatore Congiu
I termini della filosofia, dai presocratici ai giorni nostri: l’obiettivo è sfilare parole e concetti dalle cassette degli attrezzi dei filosofi per metterli nelle nostre — rendendo ragione della dottrina con la quotidianità. Con Salvatore Congiu, un martedì su due.
Chi è folle? Qualcuno? Nessuno? Tutti? Per il senso comune, lo sono alcuni – una minoranza di persone, a cui viene diagnosticata la follia. Ma una tale diagnosi non esiste: ‘follia’ e ‘pazzia’ non sono termini medici. E poi molti, in ogni tempo, hanno concordato con Aristotele e Seneca che «non è mai esistito un grande ingegno senza un pizzico di follia». Follia che con l’andar dei secoli si fa addirittura democratica, non più appannaggio di pochi: «come il sole se ne va passeggiando per il mondo, e non c'è luogo dove non risplenda» secondo Shakespeare, e per Mark Twain «siamo tutti folli». Va bene, ma se tutti sono folli, allora nessuno lo è! Che pasticcio. Proviamo ad aggrapparci alla ciambella dell’etimologia.
Folle è dal latino follis ‘sacco di cuoio, mantice’: stessa radice della folata e del refolo. La metafora della testa vuota, piena d'aria, è abbastanza eloquente ma non ci aiuta affatto, anzi. Come si concilia quest’immagine con l’idea che tutti – o almeno i migliori ingegni tra noi – siano folli? Per non parlare dell’affermazione del Fedro di Platone, per cui «i massimi beni ci provengono attraverso una follia concessa certamente per dono divino», o dell’idea di ‘follia religiosa’ nella tradizione cristiana: San Francesco d’Assisi si dichiarava «pazzus in Christo, simplex et idiota», e secondo Jacopone da Todi «Chi pro Cristo ne va pazzo, /a la gente sì par matto». La contraddizione si spiega con la differenza, presente già in Platone, tra follia ‘buona’, divina – per cui si è invasati, entusiasti – e follia ‘cattiva’, umana, banalmente fisiologica.
Anche Erasmo da Rotterdam, nel suo Elogio della follia (1511), puntualizza che «vi sono due generi di follia»: una che porta tra gli umani «il furore della guerra, l’insaziabile sete dell’oro, l’amore vergognoso ed empio, il parricidio, l’incesto, il sacrilegio e altre rovine di questo genere» e l’altra, che «è desiderabile sopra ogni cosa immaginabile» e «sorge ogni volta che una dolce illusione libera l’animo da tutti gli affanni e le ansie e lo inebria di mille sensazioni piacevoli». Se gli umani divenissero saggi, infatti, sarebbe una catastrofe, giacché, come dice l’Ecclesiaste, «molta sapienza, molto affanno». Ma non è troppo comodo, così? Non è, questa follia, un prodotto funzionale alla stessa ragione, ad uso e consumo dei savi?
Esattamente questo sosteneva Michel Foucault (1926-1984) nella sua Storia della follia nell’età classica. Fino al Rinascimento la follia – come «esperienza cosmica» oscura, tragica, divina, portatrice di un sapere «inaccessibile e temibile» – esercitava una fascinazione, ancora rintracciabile nei dipinti di Bosch, Bruegel e Dürer. Poi però, com’è evidente nell’opera di Erasmo, la follia diviene «esperienza critica», ironica, tutta umana, sicché «ogni follia ha la sua ragione che la giudica e la domina, e ogni ragione ha la propria follia in cui trova la sua verità derisoria». Non avendo più «esistenza assoluta nella notte del mondo», divenuta «vuota negatività» della ragione, sua paradossale ancella e contraltare, la follia viene «riconosciuta come nulla». Non stupisce, quindi, che nel Seicento i folli fossero internati indistintamente insieme a «sifilitici, dissoluti, dissipatori, omosessuali, bestemmiatori, alchimisti, libertini», tutti rimossi dallo sguardo di una società che li riteneva moralmente sconvenienti e socialmente inetti.
Nell’Ottocento avviene un’altra svolta: la follia diventa oggetto della nuova scienza psichiatrica; i folli sono liberati dalle ‘case di correzione’ e messi nei manicomi, riconosciuti come malati. Tuttavia, secondo Foucault, c’è poco da esultare per questa «attenzione medica più proba e più consapevole»: il sapere psichiatrico è un nuovo dispositivo di sapere-potere che si è inserito nelle vecchie pratiche politico-sociali di esclusione. Sulla base dell’annullamento sociale di un determinato gruppo umano, è stata fabbricata una ‘oggettività naturale’ della follia che si è avuto buon gioco, poi, a rintracciare come ‘verità scientifica’ sui folli. Ciò che vale per il carcere – «il delinquente è un prodotto dell’istituzione» – vale per ogni altro istituto disciplinare: il sapere psichiatrico – grazie ad una «presa sui corpi» resa possibile dall’internamento – ha costituito, reificato il suo oggetto. In questo senso, per Foucault, ciò che tradizionalmente chiamiamo ‘anima’ esiste – in quanto «correlato di una tecnica di potere» esercitata su «coloro che vengono puniti […], sorvegliati, addestrati e corretti». Il potere-sapere, cioè, è sempre produttivo: costruisce non solo campi di conoscenza, narrazioni, discorsi di verità, ma anche le forme della soggettività degli individui su cui si esercita.
Ma allora cos’è la follia in sé, prima della sua «cattura» da parte del sapere? Da un lato, nella Storia della follia, Foucault la vede come una forza originaria che veglia ai margini della nostra storia quasi ne fosse la coscienza ammutolita, erompendo di quando in quando sotto le spoglie di rari artisti e filosofi – Nietzsche, Hölderlin, Van Gogh, Artaud – che col loro genio ne testimoniano la presenza latente ma inestinguibile. Folli sono alcuni, quindi. Tuttavia, subito dopo la pubblicazione del libro, Foucault ribadiva che «la follia non si può trovare allo stato selvaggio» perché «esiste solo in una società, non esiste al di fuori delle forme della sensibilità che la isolano e delle forme di rifiuto che la escludono o la catturano». Insomma: nessuno è folle. Ci arrendiamo.