Cleuasmo
cle-uà-smo
Significato Figura retorica che consiste nello sminuirsi in modo autoironico per attrarre il favore di chi ascolta
Etimologia voce dotta recuperata dal latino chleuasmos o forse direttamente dalla voce greca da cui quello deriva, chleuasmós ‘dileggio’, a sua volta da chleuázo ‘scherzare, dileggiare’.
Parola pubblicata il 04 Novembre 2020
I nomi delle figure retoriche hanno delle sorti molto diverse. A prescindere da quanto in concreto siano usate con frequenza, convinzione e mestiere da frange amplissime della popolazione, alcune non hanno sfondato, e si ritrovano ad essere escluse non solo dai glossari di base, ma anche dai dizionari più ricchi. Però i loro nomi continuano a filtrare dai manuali specialistici, colando fuori — a vantaggio di tutti noi.
Il cleuasmo è una figura retorica che non solo ha un nome difficile che richiede un certo allenamento per essere scritto (i correttori ortografici l’ignorano e quindi nemmeno loro aiutano) e pronunciato (a dirla la prima volta sembra di avere le mani del dentista in bocca), ma ha un’importanza capitale, specie in tempi come i nostri, in cui la competenza gode di un credito tutt’altro che illimitato.
Si tratta di una forma speciale di ironia — e in effetti il significato del verbo chleuázo è quello di ‘scherzare, dileggiare’ — o meglio di sottile autoironia che l’oratore impiega per rendersi più simpatico e affidabile per chi lo ascolta: lo fa sminuendosi. Col cleuasmo si ingenera l’impressione che a parlare sia una persona alla mano, umile e forte di una saggezza pratica disinvolta, lontana da ogni sofisticazione libresca, e che inoltre conosce bene i limiti della conoscenza e dell’intelligenza propria, ma anche di quelle altrui.
Così sentiremo esordire «Non posso certo vantare i titoli che vanta la signora, ma permettetemi di fare un’osservazione di buon senso…», o magari «La mia opinione non sarà quella di un erudito, però sono testimone oculare di quello di cui si parla…» , passando per «Io sono l’ultimo a poter mettere bocca su una cosa del genere, ma…», e arrivando a formule di rilievo statistico assoluto come «A mio modesto parere…». Qualcuno noterà che si tratta di una specie della figura retorica dell’asteismo (anch’essa quasi sempre negletta): un’autodenigrazione simulata, che qui prende specificamente l’intento di accattivare il consenso con l’argomento e l’aggio dell’ingenuità e della purezza, franche, sciolte da capziosità bizantine e da pretese d’autorevolezza che al contrario sanno attizzare antipatie vivaci.
Una figura retorica che in modo più o meno sciocco, più o meno spontaneo, più o meno innocuo usiamo tutti — e che però ha un potere formidabile.