Tragedia

tra-gè-dia

Significato Genere teatrale, che con stile alto rappresenta vicende gravi di personaggi illustri e finale luttuoso; componimento di stile elevato; vicenda dolorosa; difficoltà

Etimologia voce dotta recuperata dal latino tragoèdia, prestito dal greco tragoidía, composto di trágos ‘capro’ e oidé ‘canto’.

  • «È lì che si è consumata la tragedia.»

L’uso che di solito si fa di questo termine è misero, rispetto a ciò che ha dentro: la mancanza di prospettiva e di tridimensionalità, oltre che patetismi enfatici, schiacciano la tragedia su un fatto doloroso, brutto brutto, da piangere — che in quanto tale è malamente attraente, fulcro di chiacchiericci, e un giornalismo avvoltoiesco ama mettercelo in cima al menu delle notizie. Ma iniziamo a sistemare i concetti lanciando un petardo etimologico: la tragedia è il canto del capro.

Il fatto che il greco tragoidía sia composto di trágos ‘capro’ (alla lettera ‘masticatore’) e oidé ‘canto’ sembra pacifico, ma il riferimento è tutt’altro che chiaro: che c’entra il capro, che canto è?
Si può pensare subito a una situazione aulica, al canto rituale con cui si sacrifica un capro, che si fa poi teatro; ma non ci mancano alternative solide: potrebbe trattarsi del canto che partecipa a una gara, e per chi vince c’è in palio un capro (spesso gli autori di teatro partecipavano a dei concorsi, nell’antichità greca). Ma il riferimento potrebbe anche essere a dei costumi di pelle di capra, con cui magari sulla scena si impersonavano dei satiri. Resteremo col dubbio, su questa genesi.

Ora, dando un primo carattere alla tragedia, dobbiamo fare attenzione a non restarci impastoiati: la tragedia è in effetti una rappresentazione drammatica che va a finire male. Ma questo non è un carattere isolato, e anzi ne ha altri intorno d’importanza più radicale e duratura.
La tragedia è solenne, e porta lo stile alla sua massima altezza. Riguarda gente di rango sommo, fatti enormi e gravi — e sì, peraltro va a finire in maniera luttuosa e nefasta. Ma la tragedia, nei secoli, continua a navigare come componimento letterario elevato.

Prendiamo un esempio qualunque — Dante (lo so, è come quando a scuola s’interroga a caso e si finisce per far venire alla lavagna sempre la stessa persona, ma funziona così bene...). Quando Dante incontra Virgilio, che ha tutta l’aria di essere il suo scrittore preferito, gli sviolina «Tu se’ lo mio maestro e ’l mio autore, / tu se’ solo colui da cu’ io tolsi / lo bello stilo che m’ha fatto onore.» Lo dirà anche perché nella selva oscura, con le fiere che lo assaltano, è proprio alle perse, e quindi un po’ di lusinga verso chi potrebbe cavarti dai guai non guasta, ma qui c’interessa il bello stilo: Dante dice di averlo imparato da lui, e questobello stilo non è una dicitura generica: è lo stile tragico, cioè alto. Ad ogni modo nella Commedia non lo impiegherà sempre — ed è per questo, fra l’altro, che si chiama solo ‘Commedia’ (va anche a finire bene, poi, figuriamoci se può essere una tragedia).

Inoltre la tragedia, ai tempi che Aristotele filava, godeva di grande considerazione non solo sul piano sociale e artistico, ma anche filosofico: la sua narrazione elevata e universale non ha solo un grande valore intrinseco, ma produce nel pubblico quella che proprio Aristotele descrisse come la catarsi. Vedi rappresentate a teatro passioni cupe, travolgenti — roba terrificante sì, ma roba tua perché appartieni al genere umano — e alla fine di questo attraversamento sei purgato di quelle passioni: quest’arte specifica della tragedia purifica e rasserena.

Niente, ma proprio nulla, ma non un bottone o un ette a che fare con la tragedia da titolo di giornale o da considerazione pettegola. Questa tragediazza, che così chiamata ci raggiunge a gragnole, ha sfacciatamente a che fare con la promozione della paura, dell’insicurezza, dell’indiscrezione morbosa — si contano sulle dita di una mano le volte in cui la ‘tragedia’ di cronaca riesce ad avere un impatto su problemi pubblici, e non è invece una narrazione tremenda fine a sé stessa, destinata ad essere dilavata immediatamente lasciando un profittevole e incandeggiabile alone di angoscia. Molto più onesta la tragedia ironica, che si accosta al fastidio, come quando dimentichiamo di mettere i capperi nei pomodori secchi sott’olio, che tragedia.

Non esagerare con le parole è importante.
Non tutti i fatti gravi e dolorosi sono tragedie. La tragedia deve avere una caratura letteraria, deve saper parlare dell’esperienza umana in maniera profondissima, indelebile — e ne è prova che i prototipi delle tragedie, Prometeo Incatenato, Orestea, Sette contro Tebe, e ancora Edipo re e a Colono, Antigone, Elettra, e poi Medea, e Ifigenia in Tauride e via e via, sono rimaste cose a cui, chi vuole riflettere sull’esperienza umana, torna sempre. Pochi eventi possono dirsi tragedie senza sbavature — ed è importante conservare la parola giusta per quanto serve, altrimenti quando ne avremo davvero bisogno la troveremo smussata.
Inoltre le sbavature qui costano perché sono, a contrario, farsesche. Rinunciare alla vocazione continua alla tragedia, e accontentarci — vediamo un po’ — di disgrazie, sciagure, sventure e sinonimi del genere che hanno tutto il peso del dolore senza renderlo arrogante, può essere una scelta di sobrietà... lenitiva.

Dopotutto non serve strepito esagerato, per dirci che soffriamo e possiamo soffrire — è una delle poche verità condivise. Leopardi, nell’Ultimo canto di Saffo, la mette così: «Arcano è tutto, / fuor che il nostro dolor». Non è messa male — e quel ‘nostro’ è un mezzo gaudio.

Parola pubblicata il 10 Dicembre 2024