Turbare
Scorci letterari
tur-bà-re (io tùr-bo)
Significato Come transitivo, agitare qualcosa alterandone la regolarità, la limpidezza, la serenità; come intransitivo pronominale, inquietarsi, sconvolgersi
Etimologia dal latino turbare, derivato di turba ‘confusione, scompiglio, calca, agitazione’, probabilmente dal greco tùrbe.
Parola pubblicata il 27 Marzo 2017
Scorci letterari - con Lucia Masetti
Con Lucia Masetti, dottoranda in letteratura italiana, uno scorcio letterario sulla parola del giorno.
Difficilmente si può fare a meno di una parola come questa, che a dispetto del suo significato è di una limpidezza compassata davvero elegante.
È forte di un significato articolato, le cui articolazioni sono però estremamente coese. Il generare confusione, scompiglio proprio del turbare si declina infatti in effetti diversi, con diverse sfumature che però si embricano senza poter essere del tutto discrete. L’alterazione di una regolarità è anche alterazione di una serenità, e l’alterazione di una serenità intorbida ciò che era limpido. Effetti sconvolgenti che hanno il potere di guastare ciò su cui si manifestano - una molestia che può arrivare fino all’interruzione. Si può turbare un festeggiamento pubblico, se un rumore ci turba il sonno dormiremo poco e male; il vento che si leva turba il mare, il sasso gettato nello stagno ne turba lo specchio; la notizia inattesa ci turba, così come il segno di una lunga menzogna.
Ed è giusto in riferimento alla persona, all’animo, alla mente che il turbare e il turbarsi raggiungono il massimo della raffinatezza. Descrivono l’emergere di un’inquietudine che adombra, che irrita, che incomoda, che trascina nel pensiero senza poter essere elusa; ma per quanto possa essere profonda e sconvolgente non si manifesta in maniera strepitosa. Se qualcuno è turbato glielo si legge sul viso.
__________________________________
(Dante, Purgatorio XXVII, vv. 20-36)
E Virgilio mi disse: «Figliuol mio,
qui può esser tormento, ma non morte. […]
Pon giù omai, pon giù ogne temenza;
volgiti in qua e vieni: entra sicuro!»
E io pur fermo e contra coscienza.
Quando mi vide star pur fermo e duro,
turbato un poco disse: «Or vedi, figlio:
tra Beatrice e te è questo muro.»
Dante si trova ormai ad un passo dal Paradiso terrestre, ossia – a livello simbolico – dalla piena realizzazione di sé. Per arrivarci, però, deve attraversare un muro di fuoco, ed è letteralmente paralizzato dal terrore. Peraltro in passato ha assistito a qualche rogo, quindi sa anche troppo bene di cosa si tratta.
Virgilio naturalmente interviene subito con argomentazioni rassicuranti, ma fallisce: Dante resta incollato al suolo, contro la sua stessa volontà. Infine Virgilio aggiunge, rassegnato: “Guarda che c’è Beatrice dall’altra parte.” E due secondi dopo Dante si scapicolla al di là del muro.
Ora, questo simpatico episodio è psicologicamente molto acuto. anche noi, infatti, sperimentiamo talvolta angosce profonde, che sappiamo irrazionali ma che non riusciamo a combattere. In particolare, come Dante, temiamo il dolore (fisico e mentale) e ciò che il dolore annuncia, ossia la morte. Non solo la morte fisica, ovviamente. La vita implica scelte, addii, delusioni: e ognuna di queste esperienze corrisponde alla morte di un pezzo di noi.
Perciò, come Dante, ci blocchiamo. Ci chiudiamo nelle profondità della nostra paura, mentre tutti i ragionamenti scivolano sulla superficie. Ecco perché Virgilio è «turbato»: la ragione – da lui simboleggiata – si rende conto della propria impotenza.
Solo una parola riesce a penetrare nel cuore di Dante, e lì si conficca come l’amo del pescatore: il nome della donna amata. Perché l’amore è la più grande forza propulsiva, quella che mette in moto l’intero universo. Dunque l’amore – incarnato in persone specifiche – è la forza che ci “tira fuori” dalle nostre paure, permettendoci di diventare quello che siamo.
Così anche il dolore (il fuoco) cambia il suo significato: non più forza distruttiva, ma strumento di purificazione, ossia di costruzione dell’io. E alla paura si sostituisce la speranza: per questo gli spiriti purgatoriali sono, scrive Dante, «contenti nel foco». Perché tendono ad una meta, che è l’amore stesso.