Sacrilego
Scorci letterari
sa-crì-le-go
Significato Che costituisce un sacrilegio, o chi lo compie; gravemente offensivo di un valore riverito; in religione, di sacramento impartito da chi non ne ha l’autorità o ricevuto senza sincerità di fede
Etimologia dal latino sacrilegus ‘ladro di cose sacre, profanatore’, composto di sacra ‘cose sacre’ e lègere ‘portar via’.
Parola pubblicata il 25 Giugno 2018
Scorci letterari - con Lucia Masetti
Con Lucia Masetti, dottoranda in letteratura italiana, uno scorcio letterario sulla parola del giorno.
Questo aggettivo ha dei significati molto ampi, ma prende le mosse da una figura precisa, antica ed evidentemente molto suggestiva: il ladro di cose sacre. C’è stato un tempo, un lungo lungo tempo, in cui i tesori si concentravano presso i templi e le istituzioni religiose (anzi, il thesauròs nasce proprio come annesso del tempio, caveau di arredi sacri). Quindi il furfante che sottrae cose sacre è sempre stato un tipo di furfante piuttosto rilevante, anche perché alla ricchezza del bottino che concupiva si univa la profanità dell’atto: il sacro che viene rubato è profanato. Tanto rilevante che il sacrilegio (atto del sacrilego e che anzi procede etimologicamente dal sacrilegus) furto o non furto diventa antonomasia della profanazione del consacrato, con un respiro, come dicevamo in apertura, molto ampio. In particolare, ampio esattamente quanto è ampia la concezione del sacro che deve essere riverito.
Ovviamente è un atto sacrilego rubare un ostensorio o imbrattare un altare, ed è sacrilego colui che compie queste azioni. Ma ha il profilo del sacrilego anche l’appoggiarsi alla statua per farsi il selfie, o l’incolto scellerato che mette il formaggio sulla ribollita; è sacrilego parlare a voce alta al museo o al cinema, sacrilego chi abbandona il suo sudiciume nel prato. Perché la vigilanza sul sacrilego, sulla possibilità dell’offesa grave, pervade l’intera area del valore riconosciuto - intimo o condiviso.
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(G. Parini, Il Giorno, Mezzogiorno, vv. 517-540)
Or le sovviene il giorno,
ahi fero giorno! allor che la sua bella
vergine cucci[ol]a, de le Grazie alunna,
giovenilmente vezzeggiando, il piede
villan del servo con l’eburneo dente
segnò di lieve nota: ed egli audace
con sacrilego piè lanciolla; e quella
tre volte rotolò; tre volte scosse
gli scompigliati peli, e da le molli
nari soffiò la polvere rodente.
[…] Alfin […] al sen le corse; e in suo tenor vendetta
chieder sembrolle.
Protagonista di questo brano è uno degli animali più antipatici della letteratura italiana: una cagnetta aristocratica e viziata.
Un giorno la bestiola morde uno dei servi di casa, che se la scrolla di dosso con un calcio. Un episodio banale che però - dal punto di vista della dama padrona della cagnetta – assume proporzioni tragiche. La povera cagnolina intacca solo leggermente, e per gioco, il piede del servo; ma questi, invece di essere grato del privilegio, la colpisce: cosicché per tre volte (la triplice ripetizione è tipica del racconto epico) lei rotola, si scuote, e soffia dalle narici la polvere che le ha irritato il naso… in altre parole, starnutisce.
Il brano, come tutta l’opera, è un capolavoro di antifrasi: figura retorica che consiste nel dire qualcosa affermando il suo contrario. Parini infatti ritrae spietatamente l’aristocrazia, ma è raro che la critichi in modo diretto. Al contrario la indora al di là di ogni misura, adoperando una lingua aulica e solenne: e la critica nasce proprio dal contrasto tra l’enfasi della celebrazione e la meschinità del suo oggetto.
Inoltre, in apparenza, il narratore sposa perfettamente il punto di vista dei signori. Ad esempio descrive il calcio del servo come un sacrilegio ai danni di una creatura sublime, “alunna delle Grazie”. Così facendo, però, svela l’abisso tra l’ottica distorta della dama e la realtà oggettiva; e l’effetto è non solo ridicolo, ma inquietante.
In ultimo la cagnetta stessa assume un aspetto minaccioso: dal grembo della padrona “chiede vendetta” e la ottiene, come un piccolo idolo offeso da placare col sangue. E infatti il servo sarà ferocemente punito: licenziato e ostracizzato, si ridurrà a chiedere l’elemosina per strada con la moglie e i figli. Così la frivolezza del mondo aristocratico lascia emergere un cinismo spietato.
Insomma, per usare un paragone di Ungaretti, Parini getta bombe a mano con la stessa grazia con cui una dama getterebbe una rosa.