Matto

màt-to

Significato Privo della ragione, folle, assurdo, volubile; appassionato, grande; stravagante, bizzarro

Etimologia etimo dibattuto.

L’etimologia di questa parola è molto dibattuta, e vale la pena capire meglio perché: può finire per raccontarci qualcosa di profondo.

Ci sono dei linguisti che tentano di unificare l’etimo di una grande famiglia di parole che presenta la sequenza ‘matt’, e altri che invece la distinguono in famiglie diverse che si assomigliano per mera coincidenza.
I primi riportano tutto al latino volgare mattus, alterazione di madidus ‘bagnato’ (da cui il nostro ‘madido’): è un fradicio che porterebbe al mattone (che nasce bagnato), all’ubriaco e quindi tanto al matto-folle quanto allo stordito, che giunge all’abbattuto e al morto della vena di mattatore e mattatoio. Ma possono essere giudicate evoluzioni acrobatiche e improbabili.
Difatti altri studiosi preferiscono tenere separato il matto-folle, ricostruendone un’etimologia diversa e profondamente intessuta con la storia della nostra penisola. Il latino tardo mattus, in questa prospettiva, potrebbe derivare da maccus, cioè ‘stupido, sciocco’. Un significato maturato da un nome: Maccus era una maschera della commedia atellana.

Presso l’antica città di Atella (pare), il popolo italico degli Osci aveva sviluppato un peculiare tipo di teatro, l’atellana, che ebbe un successo notevole anche a Roma già all’inizio del IV secolo a.C., dove continuò ad essere rappresentata in lingua osca fino all’età imperiale – e pensiamo che Plauto e Terenzio, i più celebri commediografi della latinità, sarebbero vissuti rispettivamente fino al 184 e al 159 a.C., quindi sono posteriori all’introduzione dell’atellana quanto noi siamo posteriori alla Rivoluzione francese. Fatto sta che in questo genere teatrale (dal poco che se ne desume, dati gli scarsi resti documentali) molti notano delle somiglianze impressionanti con la commedia dell’arte: mimata sulla base di un canovaccio, con ampio margine d’improvvisazione e l’uso di maschere fisse, come il Pappus (il vecchio babbeo), il Bucco (il giovane smargiasso babbeo), il Maccus (il babbeo mangione) e il Dossennus (il gobbo scaltro).

Secondo questa ricostruzione, sarebbe quindi da questo Maccus che noi mutuiamo il nostro ‘matto’. Una parola di cui si percepisce il vigore popolare, ricca di sbavature contraddittorie – come è normale per le parole di questo genere. Il matto può essere privo della ragione, colpito da una malattia mentale o perfino avere connotati di bestialità, e però descrive una passione accesa ma ordinaria quando dico di andare matto per i peperoni, una grandezza semplice o tremendamente sofferta quando lo vedo matto di dolore, quando dichiaro la mia voglia matta di fare un viaggio; prevale un’aura lunatica di volubilità quando parliamo di un tempo matto, prevale la sua debolezza quando do la colpa alla mia testa matta, mentre un’idea matta ha il vigore libero del bizzarro, come hanno i tipi mezzi matti, o quei matti dei cani.

Le parole molto alte hanno spesso significati netti, ritagliati con la precisione di una regola univoca. Parole così matte, invece, ci dichiarano un contatto viscerale con i grandi moti della lingua, con una potenza vasta di usi che sconfinano e rimescolano regolarmente: giocano allo stesso tempo su molti tavoli. Teso fra le cime del babbeo, del furioso, del debole, il matto disegna il contorno di una libertà deprecata, disorientata, entusiasmante. Un disegno di complessità unica.

Parola pubblicata il 24 Dicembre 2020