Recare

re-cà-re (io rè-co)

Significato Portare, portare con sé; causare

Etimologia dal gotico rikan ‘ammucchiare’.

È un grande classico, un archetipo. C’è un tizio che viene da fuori, ha usi barbari e si afferma nella comunità con ruvida energia. Col tempo però si ripulisce, si integra e si eleva fino a diventare non solo un notabile della comunità, ma uno dei dotti più supponenti e financo puzzoni, tanto che finisce per essere evitato. Questa è la storia del ‘recare’.

È una parola di origine gotica — rekan significava ‘ammucchiare’. Questo vuol dire che non si tratta di un prestito acquisito dalla lingua italiana, ma dalla lingua latina che lentamente aveva iniziato a trasformarsi in italiano: siamo ancora in una fase antica, del primissimo medioevo — la dominazione gotica nel nord Italia è della prima metà del VI secolo.

Curiosamente, non siamo davanti a un termine che è stato necessario ricostruire per ipotesi poiché vissuto in una lingua barbara che non veniva scritta, come ad esempio avviene spesso con le parole di ascendenza longobarda: è un termine attestato, scritto. Questo accade con diverse parole gotiche soprattutto perché abbiamo in particolare un testo scritto in gotico — una bibbia, tradotta a partire dal greco dal vescovo e missionario goto Ulfila (del IV secolo, lo avevamo già nominato parlando di tuffare), che per farlo si dovette inventare perfino un alfabeto.

È un termine che ha vissuto una vita di popolo, e ha subito uno slittamento di significato: da un originale ‘ammucchiare’ — che si legge ancora nel Rechen tedesco moderno, cioè il rastrello — diventa un ‘portare’, in particolare un ‘portare con sé’.

Data la semplicità essenziale di questi significati, è stato usato con versatilità — ma ha perso i tratti grossolani che collegheremmo a un ‘ammucchiare, ammassare’, anzi: il recare ha maturato una certa cura, perfino dei profili protocollari, e anche dei tagli eziologici, di causa ed effetto — ancor più evidenti nel derivato arrecare, che è proprio un ‘causare’.

Così si può recare conforto a una persona afflitta, mentre il canale reca l’acqua in paese; al mercato vengono recati formaggi squisiti, mentre la camomilla reca effetti calmanti; posso recarmi a lavoro tranquillo, e recare ricchi doni o doti.

C’è un forte sapore letterario, in questo verbo, un odore di cerimonia, se non di sussiego. E questo va benissimo, le parole appartenenti a questo registro sono delle risorse strabilianti: quanto è più sbrigativo e meno consapevole di sé un mero ‘portare conforto’? Quanto è più normale e meno magico il mercato in cui vengono ‘portati formaggi squisiti’? Quanto è più scontato, e perfino venale, un ‘portare ricchi doni’?

Certo, magari certi usi nel linguaggio burocratico, che trasformano ‘documenti firmati’ in ‘documenti che recano la firma’, ‘provvedimenti che prevedono un accertamento’ in ‘provvedimenti che recano la previsione di un accertamento’ potrebbero essere evitati. È un linguaggio che esige chiarezza terragna, non ricercatezza.
Il ‘recare’ è un abito buono: c’è il momento per indossarlo e c’è quello in cui non va. Se si cerca un’espressione in cui riguardo e maniera abbiano una tinta più forte, e il tono generale risulti contegnoso e allusivo d’atmosfere insolite, nella serietà e nell’ironia, il recare fa proprio per noi.

Parola pubblicata il 24 Gennaio 2022