Rustico
rù-sti-co
Significato Come aggettivo, di campagna; scontroso, poco socievole; schivo; semplice, senza ricercatezze; grezzo. Come sostantivo, annesso di ville e fattorie; contadino; edificio senza opere di rifinitura
Etimologia voce dotta recuperata dal latino rusticus, da rus ‘campagna’.
- «Se vuoi riscoprire i sapori veri, i sapori rustici, ho una trattoria da indicarti.»
Parola pubblicata il 18 Aprile 2025
Una parola contesa, che volge lo scontroso e il grezzo in un certo genere di pettinato e di patinato — più complessa di quel che parrebbe.
Intendiamoci, si parte dal versante più chiaramente ruvido della campagna: ‘rustico’ deriva dal latino rus, che è proprio la campagna, contrapposta alla città — e quindi all’urbano (come vedremo, in senso lato).
Si può certo parlare asciuttamente di un fondo rustico, definendo così la sua ubicazione in un contesto rurale, ma è molto interessante come si possa parlare di quanto sia rustico il vicino di casa, dei modi rustici e sinceri dell’amica, delle risposte rustiche che ci dà il ragazzo che ci piace. Qui la campagna trascende, e si specchia nel comportamento, in una globale lontananza dalla cortesia: il rustico non è molto socievole, anzi volentieri è scontroso; inoltre, a normale complemento, è timido, schivo. E poi, come s’intende, non è raffinato, anzi è semplice, terragno. Il contrario, appunto, dell’urbano.
Però attenzione: il rustico ci può parlare di un certo modo di essere sgraziato, ma non ci parla d’ignoranza, viltà. Può essere burbero, sbrigativo, grezzo, ma non è villano e cafone.
Certo anche per questo il rustico ha un successo brillante da un punto di vista estetico.
Un pavimento rustico ha tutto il fascino tipico della vera casa di campagna — non è azzimato e asettico come le superfici di un attico in città. Il tavolo rustico è non rifinito, è abbastanza grezzo, ma proprio per questo valorizza la sostanza di cui è fatto, un legno schietto, di bellezza naturale, come quello che si può trovare nel maniero e nell’antica colonica. La passata di pomodoro rustica — così come la zuppa rustica, la salsa rustica e via dicendo — ci fa sentire i pezzi, o almeno una consistenza più corposa, perché (il passaggio è geniale e spassoso) in città si mangia velluto omologato per palati di stanchezza bizantina, mentre in campagna, ove si bada al sodo e si sa ancora godere, la roba autentica si mangia a tocchi, tagliati in cucina lama contro pollice. Una cena rustica in trattoria è gioviale, conviviale, semplice e franca anche nei sapori — non c’è da aspettarsi impiattamenti fini, ma tutto un altro filone d’esperienza.
Questo carattere estetico riesce a proporsi con un’aura di spontaneità tale che poi… si ricerca, ribaltando la frittata. Per richiamare ancora una volta Wilde, «Essere naturali è una posa così difficile da mantenere», ed è ovvio che la passata rustica sia fatta con le stesse materie di quella non rustica dello scaffale sotto — semplicemente passa per macchinari calibrati in modo diverso.
Specie se abbiamo uno spirito abbastanza rustico, fra un ringhio e una parola storta ma vera, fra una testa scossa e una reazione umbratile, per fortuna non è difficile accorgersi se il rustico è rustico, o solo un urbano che ha messo il cappello di paglia e la salopette di jeans, per sentirsi un po’ georgico, un po’ bucolico, un po’ arcadico.
Poi possiamo parlare senza connotazioni troppo marcate del rustico annesso alla casa padronale, della casa veduta ancora al rustico, senza finiture, e anche dei rustici quali contadini — ma la febbre del rustico è tutta estetica.